Mi occupo di riabilitazione neuropsicologica da circa 20 anni nel campo dei Disturbi Specifici di Apprendimento. La mia lunga esperienza mi ha messo, in varie forme, sempre di fronte ad un fatto costante: lavorare con queste difficoltà significa incrociare funzioni che fanno una gran fatica a diventare automatiche e che nella maggior parte dei casi non vanno verso una dimensione di normalità. Questo costringe l’operatore ad avere a che fare con un numero infinito di memorie traballanti che devono essere potenziate in tutti i modi e la ricerca della facilitazione più adeguata è impegno quotidiano per chi, come me, ha proprio il compito di potenziare le funzioni deficitarie.

Questa esigenza mi ha portato nel tempo a rivedere il concetto di “facilitazione” in termini scientifici. Dico questo perché nella stragrande maggioranza degli approcci, sia didattici sia, anche, riabilitativi, il concetto di facilitazione è spesso legato o a motivare il soggetto, o a provare a dare una serie di “aiuti” che risultano però ridondanti, nel senso che gli stimoli che dovrebbero rinforzare o potenziare la memoria sono percettivamente generici.

Ad esempio, nella riabilitazione e nella didattica relativa al calcolo, i materiali utilizzati sono oggetti di varia forma e colore (palline, cartoncini e così via), scelti con il fine di incuriosire i bambini provando a sviluppare al massimo la loro attenzione.

Osservando, invece, i bambini già dalle classi dell’infanzia, è evidente che lo strumento più naturale da loro utilizzato per rappresentare numeri sono le mani. Del resto, è noto a tutti come, se si chiede ad un bimbo quanti anni ha, la risposta più immediata, istintiva quasi, è il lavorare sulle mani per raggiungere con le dita la rappresentazione della sua età.

Sviluppando questa osservazione in ambito riabilitativo con una rappresentazione numerica fondata su una precisa metodologia delle posture, rigidamente fissate e sempre uguali a se stesse, quello a cui si assiste è un’immediata memorizzazione della rappresentazione dei numeri, che i bambini sono in grado di agire con estrema naturalezza. Così il gesto diventa una vera facilitazione per il recupero del nome del numero. Per realizzare operazioni di calcolo mentale, infatti, la mente ha la necessità di avere un’immagine mentale dei singoli numeri che può quindi computare solo se questi sono singolarmente fissati. Attraverso le posture delle mani, allora, il bambino ha la possibilità di computare agendo in mente, nel senso che aprendo o chiudendo delle dita si trova naturalmente a rimanere con una rappresentazione finale che già conosce (cioè la postura) e che deve solo nominare. Questo “agire in mente”, che è il lavoro che il cervello deve fare per qualsiasi forma esecutiva, trova come facilitazione il gesto, cioè la possibilità di risolvere il compito con un’azione che fa parte del corpo e che, come tale, è già registrata nella memoria propriocettiva. Il gesto diventa una facilitazione perché non carica la memoria di ulteriori compiti che necessitano di maggiori capacità di memorizzazione, come nel caso di rappresentarsi oggetti esterni.

Nella mia esperienza di riabilitazione, quanto descritto ha portato a risultati importanti nel lavoro di potenziamento delle abilità di calcolo mentale, svolto in tutte le forme di discalculia. Infatti le posture non solo hanno rapidamente risolto la conta mentale nell’ambito del dieci, ma hanno anche reso più sicure le abilità di memorizzazione visiva e di rappresentazione di immagine mentale.

Proprio sulla base di questi risultati in patologia, avendo, ormai da diversi anni, la possibilità di collaborare con varie scuole, ho pensato di condividere quest’idea, ripensando con gli insegnanti all’introduzione di una metodologia ugualmente rigorosa, fondata su uno specifico utilizzo delle posture delle mani nell’impostazione del calcolo nelle classi dell’infanzia, già a partire dai tre anni.

Abbiamo innanzitutto ripensato ad una rappresentazione visiva dell’alfabeto numerico in forma di posture chiedendo ai bimbi prima l’azione delle stesse, con un unico movimento, e non come un divenire di conta, in maniera da mentalizzare il risultato finale come somma del tutto, poi il riconoscimento delle stesse con giochi fondati sulla lettura delle posture degli altri bimbi ed infine la lettura dei cartellini. Successivamente abbiamo introdotto dei nuovi cartellini con la rappresentazione simultanea del numero in codice arabo e delle posture corrispondenti, per fissare l’associazione della specifica postura al numero scritto sul cartellino sia in lettura sia in produzione.

In breve tempo è stato possibile ottenere una grossa rapidità di azione delle posture. Ciò ha portato sia ad una veloce competenza lessicale di lettura del numero in codice arabo, sia ad una grossa competenza di rappresentarsi mentalmente la quantità in forma di postura. Quest’ultima abilità ci ha permesso di iniziare a giocare con le prime forme di calcolo nell’ambito del 10, agendo le posture fisse del primo numero e aprendo in conta successiva le restanti dita; in tal modo, abbiamo ottenuto  che i bimbi realizzassero la postura finale riuscendola a nominare semplicemente guardandola, senza ricontare. Il passaggio successivo è stato quello di richiedere ai bimbi di immaginare (ovviamente seguendoli verbalmente negli step) tutta la procedura e arrivare quindi al calcolo mentale. Il risultato è stato positivo ed ha portato i bambini, ognuno con i propri tempi, a gestire operazioni di conta mentale nell’ambito del dieci con grossa rapidità.

All’inizio del percorso io e gli insegnanti eravamo pieni di perplessità nel proporre a bimbi così piccoli materiali così rigorosi e giochi apparentemente, almeno per noi, un po’ stressanti e ripetitivi. Su questo, però, i piccoli ci hanno smentito alla grande, mostrando un grosso entusiasmo nell’utilizzo delle mani e dei cartellini, poiché li richiedevano anche quando l’organizzazione didattica non li prevedeva. Quello che più mi ha colpito è stato verificare la meraviglia nei loro occhi nel momento in cui si rendevano conto di effettuare le operazioni usando le loro manine  ed il loro piacere era visibile dal fatto che non volevano più smettere. Questo risultato mi è sembrato interessante per vari motivi, ma soprattutto siamo riusciti a creare un percorso di “insegnamento” del  calcolo mentale che normalmente viene solo verificato con la richiesta del non utilizzo delle dita, senza ipotizzare un modo progressivo per tutti quei bimbi che non individuano spontaneamente una strategia possibile alla efficace realizzazione di tale operazione.

Che le mani avessero un ruolo cruciale nello sviluppo del calcolo lo possiamo ipotizzare riflettendo già sul fatto che il nostro sistema di conta è in base dieci proprio come il numero delle nostre dita; a mio avviso, però, l’impiego e l’efficacia di queste ultime in altre forme di apprendimento mi spinge ad ulteriori ricerche e mi apre domande che mi piacerebbe condividere sul piano dell’esperienza.

In particolare, mi piace portare la testimonianza dell’esperienza che ho avuto nell’impiego delle mani nella memorizzazione grammaticale e in tutte quelle materie che richiedono abilità di memorie di lista lessicale per le quali è richiesto un ripescaggio automatico.

Anche quest’esperienza, come la precedente, nasce nello studio logopedico dalla ricerca di facilitazioni funzionali che possano aiutare la memorizzazione dei tempi verbali.

Prima di passare al racconto dell’esperienza volevo fare delle precisazione sulle funzioni che la mente mette in campo per rispondere a semplici domande, del tipo: mi dici il tempo composto del presente del modo indicativo?; o ancora: mi dici la terza persona singolare del verbo..?; oppure: mi fai l’analisi grammaticale del verbo…? Innanzitutto, va preliminarmente chiarito che le memorie che entrano in campo per gestire compiti di questo tipo sono molteplici e diverse ed, oltre ad essere singolarmente funzionanti, devono anche risultare capaci di interagire nella contemporaneità delle funzioni necessarie alla complessità delle richieste. Questo compito è assolto dalla working memory, che serve proprio a coordinare le singole memorie, mantenendole disponibili per il tempo necessario a produrre la risposta corretta.

Ritornando alla descrizione dell’esperienza, dopo l’ennesimo tentativo di affidare questo compito solo alla memoria linguistica e visiva con schemi dai colori più svariati, tutto quello che ottenevo era, al massimo, l’evocazione dell’intera lista assolutamente rigida nella sua recitazione fosse quella del tempo, o dei modi.

Per riuscire a superare questo scoglio mi era evidente che la facilitazione attraverso gli schemi era ancora troppo generica e, memore dell’esperienza del calcolo, ho provato ad utilizzare le mani come facilitazione alle memorie in difficoltà.

Ho diviso, eliminando i pollici, i tempi semplici dai composti sfruttando la specularità naturale delle mani. Poi ho proceduto facendo memorizzare sull’indice della mano destra, scelta per i tempi semplici, la parola “presente”, mentre sull’indice contrapposto, quello della mano sinistra, la parola “passato prossimo”. Così ho continuato per tutte le dita con gli altri tre tempi semplici, collocati nell’ordine classico delle grammatiche (cioè imperfetto, passato remoto e futuro semplice), opposti ai relativi tempi composti. A questo punto ho verificato la memorizzazione del nome di ogni tempo, cioè dell’etichetta verbale, sia in ordine sequenziale (ad esempio: dimmi i 4 tempi semplici), sia in ordine sparso (ad esempio: dimmi il tempo sul terzo dito della mano sinistra, oppure

dimmi il composto dell’imperfetto). Al termine di questo lavoro ho fatto memorizzare l’intera coniugazione per tutti i tempi semplici, chiedendo, in ordine sparso, dimmi l’imperfetto di…, e ancora dimmi il futuro semplice di… e così via. In questo processo ho sempre chiesto ai bimbi di indicare preliminarmente il dito su cui era stato fissato il tempo da dover coniugare. Per la fissazione dei tempi composti ho fatto unire le mani e ho fatto aggiungere al tempo semplice, che i bimbi avevano già memorizzato, il participio passato del verbo richiesto. Il risultato è stato soddisfacente ed è stato interessante notare come i bimbi, in corrispondenza della difficoltà evocativa, guardassero immediatamente le dita e, muovendole, attivassero l’etichetta verbale. Ciò che è emerso è che le mani hanno rappresentato non solo una facilitazione alla memoria della lista verbale, ma hanno dato un luogo specifico ad ogni singola voce che ha permesso ai ragazzi di effettuare con maggiore facilità e rapidità l’estrapolazione del dato per effettuare compiti di analisi grammaticale. Ancora una volta, quindi, grazie all’uso delle mani è stato possibile strutturare una precisa sequenza didattica sulla memorizzazione, senza affidarla semplicemente alla ripetizione dopo lettura o, al massimo, al tentativo di agevolarla tramite strumenti esterni non in grado quindi di automatizzare una strategia precisa. Quindi, a differenza delle altre modalità di memorizzazione possibili, il risultato di questo apprendimento con tale modalità si è mantenuto molto più a lungo e senza la necessità di un numero elevato di ripetizioni nella fase di fissazione.

Ho pensato quindi di generalizzare questa modalità ora descritta, insieme agli insegnanti con cui collaboro, anche nell’impostazione della memorizzazione iniziale delle classi grammaticali per i bambini della primaria. Abbiamo quindi costruito una serie di cartellini che rappresentassero, attraverso il disegno delle mani, le categorizzazioni grammaticali dei verbi, dei nomi, degli aggettivi, degli articoli con lo stesso criterio, cioè costruendo le rappresentazioni grafiche delle mani più congeniali allo specifico compito di memorizzazione che si aveva di volta in volta davanti, come la specularità delle dita era stata la facilitazione centrale per far intuire le regole di computazione verbale.

Anche in questo contesto l’apprendimento è risultato piacevole ed efficace ed ha lasciato una traccia definitiva per l’acquisizione delle etichette verbali in maniera assai più rapida rispetto alle classi analoghe per grado che utilizzavano i metodi di memorizzazione basati sulla classica ripetizione linguistica, aiutata solo dagli schemi presenti nei loro libri.

Quando mi è stato proposto di scrivere questo articolo sul ruolo delle mani nella riabilitazione logopedica sono stata fortemente motivata a farlo per numerosi motivi. Sicuramente uno di questi è stata la possibilità di sottolineare l’importanza che le mani hanno nella nostra vita non solo come strumenti di uso pratico, ma anche come mediatori fondamentali per formare dall’esterno immagini mentali che la mente può organizzare nelle varie forme di pensiero oltre che di azione.

Ma non è tutto. Se si ripercorre in un unico sguardo l’esperienza di ricerca-azione incentrata sulle mani che si è finora illustrata, si nota subito come uno dei sensi fondamentali di essa sia l’occasione che la patologia offre per la definizione dei funzionamenti normali. La conoscenza di questi funzionamenti è indispensabile in qualunque attività pedagogico-didattica, in quanto essi rappresentano la “cassetta degli attrezzi” essenziale di cui ogni individuo necessita per sviluppare qualunque forma di apprendimento, comprese quelle necessarie allo sviluppo di un individuo che si manifesti in tutta la sua unicità e creatività. Parlo di conoscenza perché solo attraverso di essa è possibile avere un progetto di insegnamento sia nel caso del funzionamento normale, sia in quello in cui è necessario costruire delle forme davvero efficaci di facilitazione che compensino i disturbi specifici.

Proprio tale intuizione, che ha progressivamente acquisito una forma sempre più chiara e definita, è alla base della mia attuale attività di lavoro e di ricerca, incentrata particolarmente sulla costruzione di una metodologia di studio (e quindi di apprendimento) che rompa definitivamente le barriere tra riabilitazione e didattica, o per essere più espliciti, tra studio “medico” e classe scolastica. Credo, infatti, che la riabilitazione per i disturbi specifici di apprendimento continui ad avere un senso solo a causa di una mancata integrazione di saperi che garantirebbe finalmente quella “inclusione scolastica” di cui tanto si parla, ma che è solo attenta a garantire la non accettazione della naturale diversità di ogni individuo.

Per evitare ogni equivoco su quest’ultima affermazione, vanno forse spese alcune parole sul concetto di diversità così da arrivare ad una nuova (o forse più fondata) idea di individualizzazione. Quando parlo di diversità naturale di ogni individuo, mi riferisco alla sua unicità, che ha uno dei  fondamenti nei meccanismi in base a cui funziona il suo apprendimento. Se questo è vero, il reale rispetto di tale unicità, per qualsiasi proposta educativo-didattica, non può prescindere dall’analisi funzionale di quell’individuo, un’analisi, cioè, che evidenzi quali abilità di memoria abbia, come funzioni la sua capacità di pianificazione, come se la cavi con i meccanismi del calcolo e così via. Il progetto didattico che può allora scaturire è quello che si può definire pedagogia integrale, una pedagogia in grado di fondere le conoscenze dei meccanismi fisiologici che permettono l’apprendimento con la didattica disciplinare. In tal modo si può costruire un atto pedagogico già “incluso” (in quanto già ideato così nell’azione di chi lo opera) nel momento in cui viene proposto a qualunque soggetto che impara.

Ma se sono in grado di strutturare una didattica (e quindi una pedagogia) che riesca ad individualizzarsi, relativamente alle necessità dei singoli soggetti, senza modificare gli obiettivi generali di apprendimento (la comprensione delle discipline come strumenti di lettura del reale e di azione su di esso), permetto a quell’alunno di affrontare il suo percorso di istruzione e di formazione nella maniera più proficua. In definitiva, gli insegno a liberarsi dai vincoli posti da un funzionamento troppo rigido dei suoi stessi meccanismi.

Una simile opera di costruzione potrebbe permettere di lasciare davvero spazio all’intelligenza, nel senso di consentire ad essa di concentrarsi sulla comprensione, riducendo al massimo la sua funzione suppletiva rispetto agli automatismi che reggono il raccontare, il parlare, il calcolare, e così via. La prospettiva qui descritta è quindi quella di decondizionare l’individuo. Ma chi è decondizionato è davvero in grado di esprimere la sua unicità, cioè la sua diversità, come ricchezza.

In conclusione, ritorniamo alle mani. Scherzando seriamente, volevo ringraziarle per essere state loro per prime a dare il via a quelle riflessioni, qui riassunte per sommi capi, che mi hanno permesso di intuire la modalità fondamentale per facilitare il soggetto che apprende, intuizione che è rimasta intatta anche quando si è estesa ad altri strumenti di lavoro che non le prevedevano.

A pensarci meglio, esse potrebbero prenderci per mano e chiarire meglio la strada, attraverso il confronto tra chi ne è seriamente innamorato, verso la meta comune di una pedagogia che possa davvero essere integrale, tale da far costruire un atto educativo che guardi sempre alla persona nella sua totalità.

 

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *